Volontario autonomo in India.
Ormai la rubrica #iovolontarionelmondo è diventata per me uno scrigno dove condividere storie emozionanti e avvincenti di amici, conoscenti, persone che mi contattano o ragazzi che conosco via social.
Oggi ti presento Nicolò Govoni. Mi sono imbattuta per caso [anche se credo che ogni cosa avvenga con un senso] sulla sua pagina Facebook, ho letto la sua storia e immediatamente ho deciso di contattarlo per farlo partecipare a questo progetto. Nicolò ha accettato subito con grande entusiasmo e ora tocca a te.
Prenditi 5 minuti e leggi l’intervista!
1- Come è nata la tua passione per il volontariato?
Facciamo un piccolo passo indietro per rispondere alla fatidica domanda “Perché l’India?” e perché l’orfanotrofio?
Ho avuto un’adolescenza piuttosto turbolenta. All’età di 14 anni mi sono trovato catapultato in un mondo, la nostra società, i cui ritmi sono imposti dall’alto, e così le dinamiche tra persone e il cammino individuale verso l’età adulta. A 14 anni sentivo questa profonda rabbia, o forse risentimento, nei confronti di tutto ciò che mi stava attorno e che cercava di ingabbiarmi, di controllare la mia personalità. Questa fase della mia vita è durata fino ai vent’anni, degenerando in molteplici problemi personali e relazionali di cui ho per anni fatto segreto, ma dei quali mi sento oggi pronto a parlare: sono stato bocciato due volte, non tanto per una questione di rendimento scolastico, ma a causa di un’avversione quasi viscerale nei confronti dell’autorità, qualunque essa fosse, che mi portava a pormi sempre in una posizione di antagonismo rispetto agli insegnanti; proprio per questa ragione ho avuto problemi con la legge e, sebbene non si sia mai trattato di situazioni gravi, più di una volta mi sono trovato ad avere paura delle conseguenze alle scelte compiute; ho avuto un rapporto fortemente conflittuale e d’incomprensione reciproca con la mia famiglia, che mi ha spinto all’isolamento: in due parole, il classico ragazzo che si sente incompreso e per questo motivo cerca una maggiore alienazione dalla comunità che lo circonda, sia essa di carattere educativo, genitoriale o dei coetanei. Aggiungiamo a questo mix, compiuti i 16, il rapporto sofferto e morboso con una ragazza, un amore imponente, bruciante ma ossessivo, e il risultato è un ragazzo di 20 che non ne può più né di sé né di ciò che lo circonda, e, giunto al punto di rottura, sceglie di andarsene.
Era l’estate tra la quarta e la quinta liceo. Vendetti quasi tutto ciò che avevo accumulato dalla nascita, libri, fumetti, videogiochi, vestiti per far fronte alla crisi economica che aveva colpito allora la mia famiglia. Per rendere questa fuga un’esperienza più completa, inoltre, vissuta con partecipazione maggiore, decisi di iscrivermi a questo progetto di volontariato internazionale.
Perché gli orfani? Nessun motivo. Un salto nel buio. Non avevo mai avuto spiccato interesse per il sociale, per il volontariato e tantomeno per i bambini. Cercavo semplicemente un’esperienza radicalmente differente dalla vita che avevo fino ad allora condotto, nella speranza di portare alla luce un lato migliore di me stesso che sentivo seppellito nella mia coscienza, e che ero completamente incapace di abbracciare. Ho scelto l’India seguendo l’istinto: quando avevo 16 anni mi era stato regalato un libro, “Shantaram”, e la terra lì raccontata mi aveva affascinato intimamente.
Per quanto riguarda la mia famiglia, inizialmente non lo dissi a nessuno. Vendute le mie cianfrusaglie, ottenuti i soldi per il biglietto aereo, prenotai il volo senza condividere con i miei genitori questa scelta. Ricordo quando una sera, in cucina, dissi a mia madre: “Mamma, vado a fare volontariato in India.”
E lei: “Sì, certo.”
E allora le mostrai il biglietto.
Inizialmente ci fu grande scalpore. Innanzitutto nessuno pensava sarei stato in grado di vendere abbastanza da racimolare i fondi, e in secondo luogo subentrò la paura per l’ignoto, il terrore di una terra tanto lontana dal nostro immaginario da acquisire connotazioni infernali di malattie mortali e criminalità senza freni. Mia mamma inizialmente si arrabbiò, poi smise di parlarmi, e poi cercò di convincermi a desistere, condendo il tutto con una buona dose di lacrime. Mio padre invece fu di grande supporto fin dall’inizio. Infine, poi, il giorno della partenza tutti si presentarono in aeroporto a salutare, nonni, zii e amici compresi: realizzai per davvero quanto, nonostante tutto, fossi amato.
2- La tua prima missione con Projects Abroad. Di cosa ti sei occupato?
L’associazione è chiamata Projects Abroad. Ho scelto questa grande organizzazione inglese per due ragioni: primo, era all’ora completamente digiuno di qualsivoglia volontariato, e non avevo la minima idea a chi rivolgermi. Secondo, sentivo il bisogno di tranquillizzare i miei famigliari e partire con un’associazione che offrisse ai volontari un certo livello di sostegno sul campo. Sapevo che avrei operato in India, ma non sapevo esattamente dove: avevo semplicemente selezionato una delle zone più povere del paese. Ho dovuto pagare Projects Abroad per aver organizzato il tutto, ma una volta giunto a Dayavu Home, l’orfanotrofio, ho vissuto lì in cambio del mio lavoro.
3- Come ti è venuto in mente di diventare un volontario autonomo?
Quali sono le difficoltà e gli ostacoli da superare per diventarlo?
Projects Abroad ti ha aiutato in questo? In che modo?
Quali progetti sostieni o hai sostenuto in passato come volontario autonomo?
Dopo il primo mese di volontariato, nel 2013, decisi di slegarmi da Projects Abroad e continuare in qualità di volontario indipendente per avere più libertà d’azione nella missione, e così trascorsi i seguenti due mesi lavorando semplicemente per l’orfanotrofio e i suoi bambini.
A settembre rientrai in Italia per finire il liceo e, una volta eletto rappresentante d’istituto, ho proposto una raccolta fondi natalizia che fu accolta con positività inaspettata e che ancora mi scalda il cuore: mille studenti e decine di professori donarono più di 1500 euro per contribuire alla costruzione a Dayvu Home di una sala studio, mensa e ricreazione per i bimbi. Fu una sorpresa per Mr Joshua. Mi presentai nelle vacanze di Natale e fu il mio primo Natale lontano da casa e dalla mia famiglia. Lo trascorsi, tuttavia, con la mia seconda famiglia, in India.
Ad oggi, dopo quella prima raccolta fondi nel 2013, abbiamo operato in svariati modi. Nel 2015, in un evento organizzato tramite Humans of Cremona (progetto d’interviste online iniziato nel 2014 insieme a due amici, Giovanni Volpe e Ambra Zhang) con il supporto di Amnesty International, abbiamo organizzato presso la Camera di Commercio di Cremona un evento benefico e culturale chiamato “Humans for Amnesty” a cui hanno partecipato svariati artisti locali e sono state esposte le interviste ai cittadini cremonesi, raccogliendo una donazione di altri 1500 euro, subito devoluti all’orfanotrofio che rischiava la chiusura a causa di un imposizione da parte del governo indiano: è stato necessario costruire un muro perimetrale attorno alla proprietà, e oggi i bambini posso vivere più sicuri all’interno.
Lo stesso anno, durante l’estate, altri 1500 euro sono stati raccolti grazie a due eventi, il primo presso l’istituto ITIS di Cremona e il secondo grazie all’iniziativa sportiva di un cremonese. Questa raccolta è stata devoluta all’obiettivo più importante al quale ci siamo rivolti: permettere ai nostri bambini di avere accesso a un’istruzione, l’unico strumento che possa emanciparli dalla povertà in cui sono nati.
Quello legata a “Uno” è il coronamento di questa missione: avere una fonte di beneficenza che sia possibile, attraverso il racconto della loro storia, estendere a tutti gli italiani. In questo modo stiamo attualmente pagando ai ragazzi le scuole elementari, medie, superiori e in tre casi gli studi universitari! Siamo profondamente felici di questo raggiungimento.
4- Sei affiancato anche da altri volontari durante le tue missioni?
No, lavoro da solo.
5- Questo è il tuo lavoro? Se si, come ti sostieni economicamente?
Nel 2014, finito il liceo, ho deciso di iscrivermi a Symbiosis International University, a Pune, in India, per studiare giornalismo in un paese che mi dia esposizione a dinamiche sociali ed economiche uniche, ma soprattutto per continuare la mia missione a Dayavu Home. Dopo tre anni, ormai, considero i miei ragazzi come fratelli, e poter essere loro vicino è per me un’opportunità irripetibile. A causa dell’obbligo di frequenza li vedo in media una volta al mese, e allora gioco insieme a loro, insegno l’inglese, li aiuto nei compiti e soprattuto consegno le eventuali donazioni raccolte, decidendone insieme a Mr Joshua la finalità.
Torno in Italia a fine sessione d’esami, per un mese di stage obbligatorio richiesto dall’università, ogni 6 mesi.
6- Come ti ha cambiato questa esperienza? La consiglieresti anche ad altri?
Ora più che mai mi è chiaro che questa esperienza ha cambiato la mia vita: quello che doveva essere un viaggio di tre mesi è diventato un capitolo della mia esistenza apertosi tre anni fa e le cui pagine continuano a riempirsi giorno dopo giorno, un capitolo che costituisce la materia prima del mio essere; sono chi sono grazie alle persone che ho incontrato sulla strada della vita, e dunque io sono questi venti bambini, Mr Joshua, il direttore, e tutti gli esseri umani incontrati in questa esperienza incredibile.
Cosa dire a chi vorrebbe intraprendere la stessa esperienza?
Di poche cose sono certo, ma questa è una: la felicità va guadagnata. E non perché sia una regola dettata da chi vuole che sgobbiamo, ma perché l’impervia strada che ci conduce a trovare la completezza, il nostro luogo sulla mappa della vita e la nostra propria direzione, questa strada ci dona strumenti imprescindibili nella vita. Questa strada ci permette di formarci, di raggiungere il nostro stadio finale o, quantomeno, di avvicinarci il più possibile, ridurre a un nonnulla la separazione tra chi potremmo essere e chi invece siamo.
Spesso si sente dire “Fregatene degli altri, sii te stesso“. Certo, d’accordissimo. Ma quale, quale te stesso? C’è sempre un volto tra i mille nostri che aspetta di essere scoperto. Quindi sii la migliore versione di te che riesci a scovare, direi invece. Sì, è così.
E forse sarebbe stato possibile trovare questo Nicolò proprio dov’ero all’ora, immerso nel fango che io stesso mi ero creato intorno. Forse. Eppure credo di no. Lo so, lo so che dovrei dirti che il luogo non conta, la gente non conta e conta solo la pace che trovi dentro di te, ma per incontrarla, seppur fosse dentro di me, ho dovuto attraversare mezzo mondo. Se c’è qualcosa che non funziona, la risposta è semplice: cambialo. E se per farlo devi andartene da qui per un po’, va’. Va’ e scopri, va’ e scopri che c’è tanto altro al mondo oltre quello che ascoltiamo ai telegiornali, oltre a quello di cui parlano sempre i nostri genitori, oltre a ciò di cui parliamo sera dopo sera ai nostri amici, noi, proprio noi. Non vorrei ripetermi, ma ci sono innumerevoli “io” a comporre il nostro “Io”.
E se è cambiando ambiente che darai alla tua mente di conoscere questa tua sfaccettatura, ben venga. Magari è proprio così facendo che realizzerai che il tuo posto era e sarà quello da cui sei partita. A volte serve fare un passo indietro per vedere il quadro per intero.
7- Progetti futuri…ci sveli qualcosa?
Negli anni bui dell’adolescenza, una luce che mi ha sempre accompagnato è stata la letteratura. Era il mio rifugio antiatomico quando tutto il resto andava a rotoli. I libri, la lettura e la scrittura, insieme all’aiuto di chi è più debole, sono, credo, la mia essenza più veritiera. E’ dunque così che il giorno della partenza per iniziare, nel 2013, il primo progetto di volontariato, iniziai a scrivere. Tre anni sono stati necessari a completare “Uno“, in cui racconto quel primo viaggio in India e il cambiamento che comportò nel profondo della mia coscienza.
“Uno” è tuttavia soprattutto la storia di vita dei bambini e di Mr Joshua, è stato naturale per me decidere di devolvere a loro il ricavato. Credo fermamente che noi, noi occidentali, fortunati al riparo dei nostri tetti sicuri, con il cibo assicurato nel piatto e le strade in cui possiamo passeggiare senza sentirci minacciati, credo fermamente che meritiamo e abbiamo il dovere di conoscere le loro storie, quanto siano diverse e al contempo simili alle nostre personali storie di vita.
“Uno” è stato pubblicato dalla casa editrice milanese Genesis Publishing il 15 dicembre 2015, e ha venduto nella prima settimana quasi 300 copie, un numero che mi ha lasciato piacevolmente sorpreso. Non mi aspettavo un’accoglienza tanto positiva nei confronti di una storia tanto personale e, sei si pensa, lontana dalla quotidianità occidentale. Eppure “Uno” sta andando bene, permettendo in modo sempre più incisivo di offrire un futuro agli orfani di Dayavu.
La distribuzione, essendo Genesis Publishing una casa editrice nata da poco, avviene solamente attraverso Amazon e store online. La Genesis, per lo stesso motivo, ha limitate possibilità di promozione, ma s’impegna a tutto tondo per spargere la voce attraverso le proprie piattaforme online. Gran parte del passaparola è tuttavia merito dei miei amici, e quando ne ho possibilità anch’io m’impegno a far girare la voce, cosicché la gente possa conoscere questo progetto umanitario. Vedo che c’è molta gente desiderosa di aiutare, e quando si presenta loro la possibilità per farlo non esitano. E ciò mi riempie di speranza.
Dunque, questo è il progetto per il futuro: mandare i miei ragazzi all’università e i bambini a scuola attraverso le vendite di questo libro.
Un racconto meraviglioso, non credi? Per il futuro, Nicolò, ha un progetto davvero magnifico!
Vuoi aiutarlo anche tu? Ecco come fare:
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Ci sentiamo presto con un’altra entusiasmante storia per la rubrica #iovolontarionelmondo 😉
Proprio una bella storia. Ora mi vado a spulciare tutte le altre di #iovolontarionelmondo! 🙂
All’interno della rubrica troverai tante altre storie super interessanti 🙂 Buona lettura!
[…] Perché gli orfani? Nessun motivo. Un salto nel buio. Non avevo mai avuto spiccato interesse per il sociale, per il volontariato e tantomeno per i bambini. Cercavo semplicemente un’esperienza radicalmente differente dalla vita che avevo fino ad allora condotto, nella speranza di portare alla luce un lato migliore di me stesso che sentivo seppellito nella mia coscienza, e che ero completamente incapace di abbracciare. Ho scelto l’India seguendo l’istinto: quando avevo 16 anni mi era stato regalato un libro, “Shantaram”, e la terra lì raccontata mi aveva affascinato intimamente. Dall’intervista “Volontario autonomo in India” sul blog Viaggio Animamente di Sara Boccolini […]